Lettori fissi

lunedì 4 marzo 2013

La rinuncia come atto di sfida



Giovedì 28 Febbraio 2013 è una data che passerà alla storia. Alle ore 20.00, infatti, Joseph Ratzinger si  è tolto le ormai pesanti vesti di Papa ritirandosi a Castel Gandolfo. Con la sua abdicazione, Papa Benedetto XVI ha preso il settimo posto nella classifica dei Papi che hanno rinunciato al soglio pontificio; eppure, un atto come l'abdicazione del pontefice della Chiesa Cattolica viene visto come un atto estremo carico di simbolismo e sorpresa. In effetti, se consideriamo la storia dei pontefici, l'atto di Papa Ratzinger appare sostanzialmente diverso, poiché cambiano sia le prerogative che le condizioni.
Si può, quindi, considerare la rinuncia del Papa tedesco come la prima "vera rinuncia" non condizionata da contingenze o persone, ma azione estrema di un uomo che riscopre la sua finitezza. Ma andiamo per ordine. Alle ore 11 di un freddo lunedì datato 11 febbraio, durante il Concistoro, il Papa ha così pronunciato le sue "dimissioni":


Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.



Dal testo emergono gli spunti sui quali converrebbe riflettere in proposito. Il Papa si scopre inadatto a "governare" perché manca di vigore nel corpo e nell'animo. 
Confesso che inizialmente, forse a causa dello stupore personale, il Pontefice avesse pronunciato queste parole con spirito diplomatico, nascondendo motivazioni ben più profonde; non a torto, tutti i giornali e telegiornali hanno trattato la questione con lo stesso giudizio di riserva, consapevoli che da qualche anno ormai la Chiesa versa - per riprendere la metafora usata nel discorso - in un mare burrascoso.
Da Vatileaks alla pedofilia, i pontefici degli ultimi decenni hanno dovuto affrontare sfide molto impegnative, delle vere e proprie mine alle fondamenta non solo della Chiesa come istituzione ma del concetto di fede. Ne é una riprova il calo delle vocazioni religiose tra i giovani, accompagnato da un sorprendente scetticismo generazionale. 
Eppure, dopo un'analisi un poco più profonda, ritengo che il Papa abbia operato perché "realmente" avverte la necessità di più giovani forze a guida della Chiesa. Quando il timoniere è troppo vecchio per guidare una nave, o lascia il posto a un altro o la nave rischia di affondare. Pertanto, l'atto di Papa Benedetto XVI, risultato di intime riflessioni ben ponderate, incarna un vero "atto di sfida" verso tutti coloro che si ritengono infallibili nella loro finitezza.
Abbiamo letto e sentito che molti hanno visto dei segnali di questa scelta nell'intervista di Peter Seewald   "Luce del mondo" e ogni giorno vengono riesumati estratti e testi in cui il pontefice avrebbe accennato a questa possibilità. Personalmente, vorrei poter analizzare l'intera situazione con una chiave di lettura speciale, perché viene da un testo redatto da Papa Benedetto il suo primo anno di pontificato, cioè l'enciclica "Deus Caritas est". Vi annoierei se mi riassumessi il testo, che trovo una bellissima pagina di riflessione, ma mi concentrerò su ciò che di quello che il pontefice scrisse mi ha portato a una riflessione meditata. Nell'enciclica si analizza il concetto primordiale ed essenziale della fede, quello dell'amore (in latino "caritas"). E' abbastanza ovvio pensare che un'idea così importante per la fede cattolica venga qui sviluppata sotto molteplici punti di vista (leggetela, è bellissima!). Ritornando al succo del discorso, ciò che mi interessa analizzare si trova nella seconda parte dell'enciclica; Joseph Ratzinger sta analizzando l'amore come "carità", vale a dire come atto concreto che le persone e le istituzioni operano verso i più bisognosi. Partendo da questo concetto, il pontefice s'addentra in un'analisi spirituale, rilevando come nella carità vi sia insito un concetto basilare: l'amore, emanazione essenziale della grazia di Cristo. Ratzinger così scrive:

Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l'eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: « L'amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).

Il testo è così illuminante che basta per capire molte cose, per comprendere il discorso finale di un Papa che si sente un uomo come tutti gli altri, che emana l'eco del pontefice "primus inter pares" più di altri. Nel titolo che ho scelto di dare al post, la rinuncia al soglio pontificio è un supremo atto di sfida alla natura umana perché, nella piena forza della sua fede, Papa Benedetto XVI da un esempio di vita a tutti gli uomini che si sentono infallibili. Ribadendo che la realizzazione del tutto è solo opera di Dio, il papa inquadra l'uomo e le sue azioni entro i limiti propri della sua natura, facendo capire che, se si comprende questo messaggio, forse si potrebbe vivere con più onesta.
Personalmente, ho ricevuto un grande insegnamento da questo papa, e auspico che gli uomini traggano beneficio da una sfida così grande, così umana.